Claudio
SPOLETINI

Ceci n’est pas une usine – Valerio Dehò

Se questa è una fabbrica?!

La “scoperta della fabbrica” è stata una delle avventure intellettuali e non, più formanti per chi ha un’età attorno ai cinquanta. Mi riferisco agli studenti più o meno impegnati che hanno avuto il modo e il tempo per riflettere sul senso del lavoro manuale, a quelli che hanno visto e discusso in diretta (e non in cassetta o dvd) “La classe operaia va in paradiso” o addirittura, come lo scrivente, che hanno scritto nell’età brufolare, in riviste dai titoli oggi onirici, come “Scuola, fabbrica, quartiere”. Chi ha fatto volantinaggio davanti alle fabbriche, sa che una cosa è leggere degli operai nei libri, un’altra è vederli  entrare a testa bassa nel Moloch puteolente per passarci le 8 ore canoniche che spesso sono molte di più.

Eppure senza rinverdire un operaismo che oggi ha un solo nome, FIOM, è chiaro come chi lavora modestamente sul piano dei simboli, quando si ritrova davanti a dei quadri come quelli di Spoletini, non possa che riannodare i fili di una memoria che non vacilla nemmeno sotto l’onda del lavoro interinale. La fabbrica è un luogo di miti, di morte, di grandi conquiste sociali e civili, oggi è tema di referendum per cui anche gli artisti possono guardala con occhi diversi, più distesi, ma non per questo meno veritieri.

Claudio Spoletini non vuole essere rassicurante, il suo essere una sorta di “cantor temporis acti” sta a significare che l’idea di quello che c’è dentro i suoi quadri merita una trasfigurazione per resistere. Credo che in questi quadri, la loro innocenza sia solo apparente, serve solo per non incutere timore negli spettatori, è una sorta di viatico verso altri mondi: forse anche verso quello in cui viviamo. Del resto lui avverte già nel titolo che “Questa non è una fabbrica”. Infatti non lo è perché non fuma né emette rumori, non è un luogo di lavoro e di stress, non si produce niente.

Si dice che l’arte è inutile. Quello che vediamo non ci serve a capire quello che viviamo. Un quadro è un quadro, le ferriere sono altro. I quadri non inquinano e danno da lavorare a molta meno gente. Spoletini opera sul mito, compie un’operazione metalinguistica, non rappresenta la realtà ma la sua mitologia. Qualcosa che è appartenuto veramente ad almeno tre generazioni d’italiani, nel bene o nel male, ma in ogni caso ha rappresentato uno spicchio dell’Italia e delle sue speranze di diventare una nazione europea, ricca e felice. Come non ricordare i racconti sul modello Olivetti, sulle speranze degli immigrati, sulle utopie del lavoro felice, della “Fabbrica illuminata”, di tutto quello straordinario apparato intellettuale che cercava di dare una visione unitaria del lavoro operaistico mescolato ad una palingenesi in cui la fatica ben fatta e felice poteva essere l’anticipazione di una società perfetta. Del resto se a noi occidentali e italiani tutto questo suona, a seconda dei punti di vista, come una sconfitta o una promessa mancata, è vero che ci sono realtà come i paesi emergenti, in cui la fabbrica torna a essere speranza di un futuro migliore, di uno scarto tra la realtà vissuta e quella auspicata, sognata.

Claudio Spoletini non è ingenuo, se i suoi dipinti sono l’anticamera di un gioco infantile, è perché l’artista mette in scena il proprio immaginario. Gli ritorna in mente qualcosa che sicuramente ha potuto condividere con la propria generazione, ma nello stesso tempo l’infantilismo diventa un mondo e una prigione. Lo vediamo dalle macchinine di latta e dagli aerei giocattolo che solcano il paesaggio. Tutto molto bello e carino, ma è come se non ci rimanesse che giocare al trenino Thomas tutta la vita. Va bene quando si è infanti, ma da adulti c’è qualcosa che non va. Eppure l’arte contemporanea ci dà questa straordinaria possibilità, questa seconda chance, che nella vita non capita quasi mai. Spoletini, figlio del boom economico non ha dimenticato e vuole anche rendere tutti noi partecipi di questa grande fascinazione collettiva. E lo fa scegliendo un linguaggio che ricorda come toni quello di Léger, immenso artista che alla classe operaia ha dedicato tutto, ma lo fa filtrando quel sentiment in chiave illustrativa, collettiva. In altri termini l’artista non vuole lavorare sul realismo, chi sarebbe in grado di farlo oggi?, ma guarda alla fabbrica attraverso l’ottica delle illustrazioni da Grand Hôtel o delle famose copertine della Domenica del Corriere eternate da Walter Molino, come ha giustamente osservato Luca Beatrice.

Ma vuol dire che queste tenere industrie sono delle mere evocazioni simpatiche e didattiche del fabbricone maleodorante e concentrazionale che tutti conosciamo? No, probabilmente bisogna usare degli occhiali che ci consentono di mettere un diaframma tra noi e la realtà. Claudio Spoletini filtra ciò che ha conosciuto con la cultura che gli appartiene, sapendo anche di star facendo dei quadri e non certo delle denuncie sociali. L’aspetto giocoso, così manifestamente irreale, vuole accentuare proprio il fatto che la fabbrica nei decenni si è costruita un immaginario che appartenendo a tutti, non appartiene di fatto più a nessuno. Non ci sono punti di vista privilegiati perché la visione nazional popolare, illustrativa, da jeu d’enfant finisce per rendere conto della memoria, del suo tendere ad appiattire tutto, tutto giustificando e omologando a quello strano paese che Proust ha magnificato.

Queste non sono delle fabbriche, è meglio ricordarlo, la rappresentazione non è la realtà anche se è funzionale alla sua trascendenza. Le industrie di Spoletini ondeggiano come le orchestre di Paolo Conte, sono tracce di storie che miscelano una dimensione immaginaria con una mitopoietica che è tipica del mondo infantile. La realtà può attendere. Il fuori scala, i colori affascinanti, le forme levigate, il corredo dei toys svolazzanti, tutto tende volutamente al grazioso proprio perché si vuole allontanare dalla realtà. Per questo la ricorda, per contrasto, proprio perché non cerca approssimazione ma distacco. Tra rotocalco e metafisica, Spoletini inserisce il suo tassello nell’arte italiana nella sua storia e nella sua ironia. Dà il suo contributo con la sicurezza di chi conosce lo stato dell’arte e la discrezione di chi non vuole apparire ciò che non è. Le sue fabbriche per questo sono già immagini da ritagliare e inserire nell’album dei ricordi, sono fatte apposta per dare alla memoria la giusta dimensione che non assolve la realtà dai suoi peccati, ma la avvolge in un contenitore dolce come l’infanzia (rivisitata). Sta a noi trarne le conclusioni, l’artista non vuole convincere nessuno, propone un suo paesaggio umano dove gli umani sono presupposti e non mai visti e percepiti. Le cose si ricordano meglio delle persone, i paesaggi urbani anche, sono il tessuto connettivo della nostra realtà, anche e soprattutto di quella che vediamo alle code dei semafori o ai caselli autostradali. Lo skyline industriale ha preso il posto dei tramonti, ne sentiamo perfino nostalgia quando siamo in vacanza. L’arte è consolatoria e sovrastrutturale, l’aveva detto Carlo Marx che di operai se ne intendeva, per questo bisogna frequentarla spesso e perdersi nei suoi labirinti.