Claudio
SPOLETINI

Un mondo fantastico – Raffaele Gavarro

DIPINGENDO UN MONDO FANTASTICO

Quando parliamo di pittura oggi, di cosa parliamo? E soprattutto come ne parliamo? Spesso si continua a fare riferimento a quella storia dell’arte millenaria, che è quasi del tutto coincidente con l’evoluzione di questo linguaggio. Si usano approcci e termini che, secondo i casi, provengono da una storia più o meno recente, trovando opportuna legittimità al nuovo quadro. Nulla di male. In fondo è quello che ci hanno insegnato all’Università. Ricercare coincidenze, analogie, contiguità, o più genericamente vaghe ispirazioni, permette di dare continuità cronologica, e non di meno consente una coerenza evolutiva allo stesso ragionare sull’arte. Seguendo questa regola, dovrei dunque parlarvi delle atmosfere surreali e non di meno metafisiche dei quadri di Claudio Spoletini. Tra l’altro in qualche modo associando a questa condizione anche le foto, che con quei quadri sono strettamente apparentate. Non so a voi, ma a me la cosa sembra del tutto insufficiente. Una sorta di scorciatoia comoda comoda, per lasciare le cose così come stanno, in una sorta di biblioteca ben ordinata in cui la metodologia di archiviazione è il formato del libro e il colore della copertina. Quindi direi di lasciar stare un simile approccio. Anche perché, nello specifico del lavoro di Spoletini, tra pittura e fotografia che s’inseguono su vie iconografiche, rischiamo di creare qualche eccessiva semplificazione di senso limitandoci alla sottolineatura della dimensione metafisico-surreale.

Diversi anni fa ho scritto delle fotografie di Spoletini, chiamando Photoplay quegli inserimenti, verosimili e improbabili al contempo, di vecchi giocattoli in paesaggi del tutto reali. Nel 1998 era da poco uscito, ed era di gran moda, Photoshop, e Spoletini si divertiva a simularlo creando dei piccoli set con cartone, colori, terre e quant’altro, posizionati in modo che con il grandangolo risultassero visivamente coerenti. Un’ironia che naturalmente trovava nell’uso dei giocattoli un ulteriore rafforzamento di senso. Con questo voglio sottolineare quanto Spoletini fosse ben dentro le dinamiche del linguaggio visivo, delle innovazioni, come dei limiti che inevitabilmente mostrano soprattutto nelle battute iniziali. È una cosa essenziale per meglio intendere anche la sua pittura. Il nostro sguardo e la nostra capacità rappresentativa sono infatti così radicalmente mutati rispetto al passato, che può esserci più di qualche difficoltà nel tentare allineamenti anche solo di senso con il passato, se non si tiene debitamente conto dell’ambiente in cui agiamo. Così appare chiaro che se quelle foto facevano riferimento ad una capacità compositiva ed elaborativa dell’immagine del tutto nuova, non di meno qualcosa di analogo accadeva (ed accade) per la pittura. Spoletini dipinge infatti delle superfici piatte, monocrome ma come retroilluminate, con un senso della prospettiva del tutto innaturale e spesso disarticolata su più piani, nel senso che appaiono più coerenti a quanto visibile su uno schermo, che a una rappresentazione di tipo realistico. La pittura tiene dunque conto della condizione visiva del nostro quotidiano e reagisce di conseguenza. Una cosa del tutto naturale, che è sempre accaduta nella Storia. L’insieme delle immagini attuali, la loro pervasività e capillarità documentativa del reale, come dell’immaginario, ha finito per formare un piano differenziato e non meno coerente, tanto da essere percepito e fruito in una condizione autonoma e altrettanto credibile di quanto si svolge sul piano della realtà-reale. Ed è a questo piano dell’immagine digitale, elettronica, fruibile sugli schermi, che fa riferimento la pittura di Claudio Spoletini. Naturalmente non mancherete di notare il cortocircuito ironico indotto dalla costante iconografica di vecchie fabbriche in cui risaltano giocattoli ormai antichi, che contraddice la provenienza visiva del tipo di rappresentazione. Quello che racconta Spoletini in questi quadri, ma anche nelle foto che corrono parallele, non è tanto una persistenza metafisico-surreale, quanto il paradosso della libertà di elaborare e dipingere un mondo fantastico, e non nostalgico e sentimentale, ma proprio e del tutto sganciato sia dalla realtà-reale sia da quella mediatica. Nella pittura si creano le condizioni di uno spazio interstiziale, in cui l’immagine trova una diversa vocazione da quella presente nel flusso quotidiano. È questa la ragione che sta spingendo la pittura nel nuovo millennio, ed è su questo che dobbiamo concentrare la nostra riflessione. Le fabbriche che si ripetono sulle tele, seguendo la costante monocromatica, sono luoghi tanto reali quanto del tutto inventati. Non è importante, non rappresentano una documentazione dell’antica epoca industriale, e anche quando sono edifici ben riconoscibili, com’è il caso del Lingotto di Torino, il riferimento diretto alla realtà è contraddetto dalla presenza di quei giocattoli che ne alterano l’oggettività realista. Che c’entra un trenino di latta colorato che corre su un paesaggio dietro la fabbrica del Lingotto dipinta in bruno Van Dick? Non c’entra nulla, naturalmente, e serve a spostare tutto il nostro pregresso immaginativo sulla fabbrica in un ambito del tutto diverso, appunto fantastico. Eppure queste fabbriche disabitate, con ciminiere fumanti, e percorse da giocattoli del tutto stranianti, assumono anche un valore emblematico, direi simbolico. Nella loro innocenza infantile e innocuità monocroma, sono senza dubbio l’emblema di un’epoca perduta, e che soprattutto non sembra aver lasciato traccia nella nostra neotecnologica realtà. Ferme nei profili disegnati, in paesaggi campestri o urbani altrettanto privi di una precisa identità, appaiono come chiese, luoghi di culto di un passato remoto, che al loro interno custodiscono l’essenza spirituale della nostra condizione di uomini moderni. Non dobbiamo e non possiamo dimenticare, che al pari di altre eredità culturali del passato, che caratterizzano la nostra stessa identità occidentale, le fabbriche rappresentavano – e rappresentano ancora oggi, anche se sempre più delocalizzate in regioni remote – la concretezza della costruzione della modernità nella solidità visibile e fruibile del manufatto. Vista da questa prospettiva gli stessi giocattoli assumono un ruolo meno ironico e più stringente di testimone di questo processo ormai per noi invisibile, ma non meno reale e necessario. La sorpresa finale è dunque, che dipingendo un mondo fantastico ci si trovi a riflettere su aspetti apparentemente marginali della nostra quotidianità. Vizio antico della pittura e dell’arte tutta, che non è male definire come inevitabile e necessario.