Claudio
SPOLETINI

Space and the City – Edoardo di Mauro

Se vogliamo inquadrare il lavoro di Claudio Spoletini in un contesto storico e generazionale il riferimento è senz’altro verso quell’ultimo scorcio dell’arte italiana che, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, ha intrapreso un lento e non ancora concluso percorso di rinnovamento iconologico e contenutistico, inserendo la citazione all’interno di un confronto con la realtà sempre più invasiva della tecnologia e dei nuovi “media”, alla ricerca dell’elaborazione di un linguaggio che permettesse all’arte di affrontare le sfide insidiose di un esterno tendente ad inglobarla a sé neutralizzandone la carica vitale di eversione linguistica che le è propria, parificandola all’incessante sequela di simulacri patinati di ogni sorta che da tempo caratterizza gli scenari metropolitani. Nell’ambito dell’eclettismo stilistico e della multidisciplinarietà che caratterizza la scena dell’arte da un buon ventennio, Spoletini, tra le molte possibilità, ha optato per la scelta non facile di uno strumento come la pittura, dato ormai per superato dagli affannati esegeti di un progresso che non è mai tale se non è in grado di compiere al pari decise fughe in avanti e repentini balzi all’indietro, se non fonda lo statuto che gli è proprio sul perenne interrogarsi soprattutto sul suo fine, e non tanto sul suo mezzo, elemento ormai secondario dopo che, con il Concettuale, il tabù della bidimensionalità “moderna” è ormai stato definitivamente superato. Se la prima fase del “ritorno alla pittura” aveva posto l’accento della citazione, aspetto ormai ineludibile dell’arte quantomeno dal Manierismo in poi in termini di analisi mentale preliminare all’esecuzione tecnica, sul ritorno di valori di visceralità espressionista e colto e smaliziato collage linguistico, la successiva ondata generazionale ha intrapreso un netto spostamento del linguaggio della pittura nei territori della contaminazione con altre discipline creative, fotografia, fumetto, pubblicità, illustrazione, ricorrendo di pari all’immenso giacimento di stereotipi formali custodito negli archivi della storia dell’arte, al fine di elaborare nuove narrazioni in grado di simboleggiare la sensibilità mutata dell’uomo post moderno. Claudio Spoletini si colloca a pieno diritto in questa cerchia di autori. Le sue tele, spesso di imponenti dimensioni, non sono tali da lasciare indifferente, ad un primo sguardo, anche il più professionale dei fruitori, spesso abituato a visitare le mostre, specie le collettive, con rapido incedere, per poi soffermarsi su quanto ha sollecitato l’interesse percettivo. Non può non colpire la lucentezza delle tinte e l’incastro preciso, quasi escheriano, delle forme. Proprio il livello estremamente patinato della confezione può a quel punto indurre, sempre d’istinto, ad una seconda reazione, quella di considerare il prodotto interessante, ma troppo confinante con il territorio dell’illustrazione. A questo punto è necessario, ed è quanto è valso per me, un terzo livello di attenzione, che permette di penetrare davvero all’interno del significato di questa originale poetica. La pittura e, più in generale, l’immagine artistica possono, in questa fase, optare per due differenti soluzioni, nei confronti della realtà esterna: porsi in una posizione di consapevole distanza per ripiegare nell’enclave della sensibilità interiore e del simbolo, oppure ingaggiare un autentico corpo a corpo per riguadagnare il terreno perduto in decenni di incessanti, lente ma inesorabili annessioni. Spoletini ha evidentemente optato per questa strategia. Egli adotta, in particolar modo per le composizioni degli ultimi anni, che riguardano costantemente immaginifici scenari urbani, un metodo che consiste nel calare iconografie colte e ricche di citazioni provenienti da svariati ambiti nei panni traslucidi della più luccicante medialità. Sottraendo ai linguaggi di confine quelle prerogative di immediatezza comunicativa che permettono una più agevole ed immediata percezione del messaggio. Che, di suo, non è affatto banale. Spoletini getta il suo sguardo di osservatore partecipe e sensibile sullo scenario metropolitano, elemento più di ogni altra cosa destinato a stimolare l’immaginario dell’arte alla creazione di situazioni di vibrante e suggestiva poesia. Le città sono il contenitore dei sogni, delle tensioni e delle utopie di ognuno di noi in relazione al rapporto che riusciamo a stabilire con gli altri, alla nostra empatia con il prossimo, che poi, negli scenari attuali, è la capacità di armonizzare la nostra solitudine con quella altrui. Le città di Spoletini non prevedono la presenza di figure umane, rappresentano la proiezioni dei sogni e dell’umore dell’artista, che le reinventa, ne fornisce una versione ideale, in cui la tensione verso l’utopia si concretizza in architetture ardite, dove realtà e fantasia si fondono in uno scenario di pari proiettato verso gli archetipi del passato, in taluni casi addirittura della premodernità, e teso verso un futuro prossimo venturo. All’interno di uno stile personalissimo ed assolutamente riconoscibile Spoletini riesce a miscelare gli ingredienti di un calibrato cocktail culturale: Baudelaire, Marinetti, Boccioni, Sant’Elia, Benjamin, Augé si mescolano alla fantascienza di Blade Runner, per passare ai fumetti di Superman e della Marvel Comics e sfiorare l’architettura post moderna e neo moderna e giungere infine alla Metafisica Dechirichiana del primo Novecento per concludersi con quella di Salvo nella seconda parte del secolo, ed ho citato solo alcuni degli spunti e delle suggestioni possibili. Spoletini guarda alle sfide non facili che attendono l’umanità del nuovo millennio con la sensibilità e la capacità di focalizzare e sublimare i problemi che solo l’arte è davvero capace di fare.

Edoardo Di Mauro, aprile 2004.