Claudio
SPOLETINI

Il tempo delle illusioni – Gabriele Perretta

Quando le illusioni divengono set di effigi globali

Dando per scontato – come dice Arnheim – che la percezione non funziona atomisticamente, ovvero per un’addizione di varie schegge che si associano ma per una compiutezza del tutto, gli oggetti che noi abbiamo di fronte, anche tramite la fotografia, tendono ad organizzarsi in una scorrevole struttura complessiva, che da un lato dà la stura alla forma stessa e dall’altra indica la funzione delle parti e della loro relazione. La percezione di un’immagine, in effetti, avviene attraverso il processo di categorizzazione, attraverso operazioni selettive determinate dall’interesse e dalla cultura. La percezione si determina grazie ad una relazione cognitiva tra il soggetto e la totalità, e il riconoscimento dei particularia avviene tramite una generalità accompagnata dai saperi precedenti e dalla capacità di condurre astrazioni sugli oggetti individuali e concreti. Forse, guardando la fotografia contemporanea, e dovendo pensare alla condizione attuale della riproduzione della realtà, all’affrancamento dal cosiddetto pericolo del dato reale e della dicotomia tra il vero e il falso, per ciò che concerne il concetto di semiotica e linguistica della pertinenza, bisognerebbe ricordare la posizione di Arhneim o di Prieto. Per pertinenza o per spettanza, si intende quel principio secondo il quale si isola un gruppo di elementi linguistici i quali vengono considerati somiglianti (da un qualche punto di vista) e dissomiglianti (cioè distinti da qualche altro punto di vista sempre unitario (per una definizione più attendibile di pertinenza si veda: L. Prieto, Pertinenza e pratica [1975], Milano, Feltrinelli, 1976)).

In effetti, nel nostro sguardo verso un’immagine che proviene dal montaggio di un piccolo set, così come nel caso di questi ultimi lavori di Claudio Spoletini, noi siamo chiamati a distinguere tra l’idea di un risultato proveniente da un assemblaggio digitale e il lavoro artigianale che vede protagonista il grandangolare (e che consente di miscelare il primo piano con il paesaggio circostante). Insomma, imbattendoci nell’abituale campo ambiguo dell’arte, noi siamo interrogati sull’attendibilità del microuniverso intrusista dei giocattoli e sul macrouniverso del territorio contiguo della geografia e dell’inventiva, attraverso la località tangibile ma completamente fuori dal luogo! Diciamo che, Spoletini si mantiene coerente con il suo discorso, ormai legittimato dalla sua lunga carriera, e ci fa apparire le minacce di pertinenza come una critica alla fotografia dei luoghi ordinari e della documentazione della realtà. I giocattoli appaiono immediatamente impertinenti, nel senso che essi presumono di organizzarsi un proprio set, risistemando e rispostando l’asse continuativo che ordinariamente siamo tenuti ad immaginare fra effettivo, attendibile e non vero, magari fasullo e fittizio. Ma se l’arte è un linguaggio, e ormai anche la fotografia abbiamo accertato che lo è (anzi la semiologia barthesiana in tempi non sospetti soccorrendoci ci ha detto che essa è linguaggio visivo prima ancora della pittura), allora il pensiero visivo – essendo fondato su una base percettiva – può dirci con Arnheim che fra vedere e pensare non c’è nessuna differenza e che molto spesso noi vediamo al di là delle aporie realistiche o illusionistiche, dettateci dalla tradizione classica dell’arte moderna e contemporanea. La ricerca di un artigiano della fotografia, come Claudio Spoletini, dimostra che nella percezione e nell’allestimento di un set possono essere enunciati e forse proposti sempre in maniera differente i meccanismi di strutturazione ed astrazione della realtà che confermano il fatto che la fotografia è puro e semplice lavoro linguistico-visivo, in grado di proporre uno sguardo sull’umanità che rompe persino i vecchi schemi oppositivi che dividono le scienze del ragionamento (razionalità e astrattezza) e della produzione visiva (irrazionalità e creatività). Una foto da set come quella di Spoletini, che spinge verso un’immagine simulacrale, conferma in maniera chiara che le coppie oppositive suddette vengono meno e che qualsiasi fantasia, qualsiasi gioco nelle forme di allestimento dell’arte contemporanea, è quasi sempre dipendente da una strutturazione che l’artista definisce “connotazione mentale”. Una strutturazione che se pur in termini di paradigmi generali non rinnova niente, all’interno di un sapere visivo rende nuovo, rigenera e rinfresca le sorti di un’applicazione, il gioco stesso di un paradosso. Diciamo che, il lavoro sulla fotografia è oggi, come direbbe Arnheim, per quanto riguarda il pensiero visivo, un criterio razionalmente dimostrativo per riferirsi con la realtà da un lato e per praticare logicamente la natura che il fotografo stesso compie o vuole compiere sull’idea del concetto visivo stesso.

Interpretando anche il titolo della proposta espositiva di Spoletini, che sarà presente alla VI edizione del Festival Internazionale della Fotografia di Roma, potremmo dire che è nell’analisi del tempo delle illusioni che possiamo ritagliarci una strada per produrre un messaggio estetico e per ritornare sul senso dell’interpretazione e della comprensione di esso. Per la fotografia di oggi, come per quella di ieri, facciamo avanti il quadro cognitivista e cerchiamo di capire con attenzione se il verismo della rappresentazione è veramente mimesi, cioè imitazione delle cose o somiglianza della rappresentazione alle cose! Sarebbe il caso che, a partire da un campo in cui la fotografia esplicita inganni dei sensi, i set che volontariamente abbagliano le vecchie aporie fra verismo e mimesi non siano altro che una apologetica dei simulacri. E nel caso di Spoletini ci sembra che sia proprio così: i set si prestano e si offrono al gioco degli idoli, delle effigi, delle tavole della memoria che hanno abbandonato la loro sacralità per fortificare una strategia ironica, ludica che mette in gioco l’idea dello spazio ordinario nell’epoca della riproducibilità mediale. Si tratta di riproduzione di condizioni percettive sviate dal confronto didascalico con la realtà, che mettono seriamente in dubbio anche il progetto di una questione linguistica nazionale della fotografia, per rivendicare un riconoscimento di genius loci o territoriale, che dovrebbe garantire le differenza rispetto a quella inglese di Martin Parr o a quella praghese-parigina di Koudelka. Nell’epoca della mutazione globale e mediale della fotografia, come è possibile riconosce nell’affinità tra il giocattolo-trenino e la stazione della provincia italiana l’identità dell’autore? E se quel luogo nel “tempo delle illusioni” fosse tutt’altro luogo? Notoriamente, i giocattoli sono oggetti che rappresentano per il bambino un’occasione di divertimento o uno stimolo alla fantasia e allo sviluppo delle facoltà intellettive. Fino all’Ottocento, il termine indicava piccoli oggetti usati da adulti e fanciulli come passatempi e includeva sia balocchi di poco valore sia manufatti realizzati in materiali preziosi. A partire dal XIX secolo il vocabolo prese a designare solo i gingilli utilizzati per i giochi infantili. Il giocattolo è il medium che riesce, meglio di ogni altro strumento di comunicazione, ad attraversare qualsiasi epoca e qualsiasi spazio, affidando all’immagine una geografia altra.

Questo strumento diviene così la testimonianza per decorare quella fotografia contemporanea che si sottrae alla linea diretta della realtà. Una fotografia che si conferma nel set, nella percezione, nel pensiero e nel concetto, così come Alberto Savinio per pensare alle pitture intendeva passare tra le suggestioni della musica e le fantasie più ludiche del gioco sonoro. La fotografia nel contemporaneo, più che attendere la realtà, la mette in forse, gestendone i tagli e l’orizzonte squisitamente psichico. Essa ricomincia così ad appartenere ad un tempo sospeso, insidia i tempi e le fratture della durata e affrontando i diversi set, si avvicina a contemporaneità plurali. È così che la fotografia si interroga sulla sua natura, sempre in bilico fra le forme della tradizione e l’irruenza del presente. Osservando bene questi scatti, quale contemporaneo possiamo individuare? L’artista si sforza così di passare attraverso delle scene inventate, che sospendono nel “sandwich iconografico” le forme di esistenza. Qui il gesto artistico e l’immagine soccorrono la prontezza dell’inconscio. Da tali soggezioni nasce l’apologia dell’illusione e della disillusione, in un viaggio che prova ad esplorare le infinite distese sulle quali si apre la percezione della costruibilità.