Claudio
SPOLETINI

Sembianze di realtà

Sembianze di realtà

di Alessandro Trabucco

Sin dalla sua prima apparizione la fotografia ha dovuto pagare uno scotto molto alto per poter entrare di diritto nel mondo dell’arte come linguaggio estetico autonomo, dovendo subire da subito, come una sorta di prova d’esame da superare, il confronto diretto con la gloriosa ed antica pratica della pittura. Dai primi del Novecento, in quegli straordinari ed irripetibili anni delle avanguardie storiche, con le sperimentazioni di Man Ray, Christian Schad e di artisti come i russi Lazlo Moholy-Nagy e Alexander Rodchenko (solo per fare pochi nomi), la tecnica fotografica ha potuto dimostrare le sue potenzialità espressive e guadagnare una posizione di rilievo nell’ambito del panorama artistico. Ma la questione della cosiddetta “duplicazione della realtà” della fotografia ha continuato a minarne la sua purezza creativa, perché considerata una tecnica contraddistinta principalmente da un procedimento esecutivo di tipo meccanico. Le riflessioni sullo stile e le considerazioni riguardanti la scelta arbitraria, da parte dell’autore, del soggetto da riprendere e delle possibilità di manipolazione dell’immagine finale, sia in fase di ripresa sia in fase di sviluppo e stampa, pare non siano state analizzate accuratamente da poter consentire a questa forma espressiva una propria completa indipendenza ed autosufficienza.

Pensiero digitale ed illusionismo percettivo

Le fotografie di Claudio Spoletini rivelano una sorprendente attitudine al pensiero digitale da far credere quasi ad una premonizione, rendendolo un precursore di questa tecnologia, con una visione proiettata fuori dal proprio tempo e radicata in un punto del futuro, un momento storico raggiunto proprio in questi ultimi anni. Questa affermazione è supportata da una consapevolezza a posteriori, cioè nata da riflessioni ponderate e ben supportate dai risultati che ha ottenuto l’artista con mezzi manuali, artigianali, potendo parlare di premonizione proprio perché l’idea e la realizzazione delle prime fotografie risale ad un po’ di anni fa, anche qualche decina, quando ancora era la cosiddetta fotografia “analogica” ad essere l’unica realtà operativa esistente. L’uso della pellicola negativa o diapositiva dava delle possibilità limitate in fase di ripresa (come avviene anche tuttora con l’utilizzo delle fotocamere digitali) e lo scarto di differenza tra l’immagine fotografata e la stampa finale (con opportunità elevate di intervento) si realizzava tutto in camera oscura, attraverso le manipolazioni compiute dal fotografo. Quindi, sembra che il lavoro fotografico di Claudio Spoletini si collochi esattamente nel passaggio epocale tra queste due tecnologie, mantenendosi però sorprendentemente ad una debita distanza da entrambe, conservando un alone di mistero sulla genesi stessa delle proprie immagini. La realtà che non viene dissimulata dall’artista è proprio il soggetto principale di ogni immagine, il giocattolo, che conserva intatta la propria identità di oggetto in miniatura, Spoletini infatti lo utilizza così com’è, inserendolo nelle situazioni che meglio si adattano alle sue caratteristiche specifiche, riuscendo in questo modo ad integrarlo perfettamente sino a creare una sorta di illusionismo percettivo. Con solo pochi accorgimenti, quali la possibile aggiunta di qualche elemento prelevato sul posto, l’utilizzo di un semplice supporto per mantenere stabile l’oggetto nel luogo prescelto ed un’accurata scelta del punto migliore di ripresa, l’artista riesce ad ottenere un risultato finale che non ha bisogno di ulteriori manipolazioni digitali, ogni minimo dettaglio viene gestito nel momento stesso della preparazione dei piccoli set e dello scatto, mantenendo quindi, come si diceva poco fa, un’impostazione manuale ed artigianale del lavoro. Torniamo quindi a riflettere sullo statuto linguistico della fotografia cosiddetta “analogica” e sulle questioni legate alla sua presunta “presa diretta”, non solo oggettiva ma anche concettuale, dell’evento che cattura col suo apparecchio. Ciò che maggiormente interessa della ricerca fotografica di Claudio Spoletini, da un punto di vista strettamente critico, è la sua autonomia rispetto alle varie teorie sui limiti espressivi di questa tecnica, sulla totale dipendenza dai fattori esterni, dalla predominanza del “referente” senza possibilità effettive di modifiche ed integrazioni. Il suo lavoro di certo registra un evento concreto e realmente accaduto di fronte all’obiettivo, ma la variazione del dato esterno diventa il fattore determinante, una sorta di cortocircuito visivo che dispone la realtà in una dimensione nuova, esistente solo nel momento stesso dello scatto, senza possibilità di replica se non per volontà del fotografo. Sta proprio qui il punto nevralgico della questione: la volontà del fotografo. Non si tratta quindi solo di porre di fronte all’obiettivo degli oggetti o delle persone in “aggiunta” all’esistente e quindi palesemente identificabili, l’operazione di Spoletini è più sottile, mimetizzata, ad un primo sguardo non così evidente, non vi è una posa o un’azione da cogliere al volo (“l’attimo fuggente” di Bresson), piuttosto vi è da osservare come gli elementi “in più” si fondano perfettamente con il resto dello spazio in modo da non distinguere più la parte reale e quella artefatta. Il gesto di porre un oggetto particolare, uno o più giocattoli, di fronte a sé e, grazie ad un’accurata inquadratura della scena e ad un gioco di prospettive in grado di unire i due differenti piani di visione, simulare la loro effettiva presenza nell’ambiente con le adeguate proporzioni rispetto alle dimensioni degli oggetti reali con i quali si rapportano, è un atto che destabilizza lo sguardo, lo stimola ad approfondire il significato dell’immagine che sta osservando, imponendogli uno sforzo maggiore della norma nella comprensione della situazione che gli si pone di fronte.

Spoletini scatta le proprie fotografie in giro per il mondo, percorrendo migliaia di chilometri portandosi dietro i propri giocattoli o scegliendoli direttamente sul posto, le sue immagini ci restituiscono quindi uno scorcio di realtà corrispondente al luogo visitato, quasi come se fossero delle foto ricordo di documentazione del viaggio, ma senza dare ad esse un taglio “turistico”, di testimonianza di un passaggio, quanto piuttosto creando una situazione di cambiamento improvviso, della durata di solo pochi minuti, il tempo necessario di introdurre nuovi elementi nel flusso spazio-temporale degli eventi, registrarne la loro presenza concreta, ma effimera, col proprio apparecchio, per poi procedere ad un ripristino della situazione iniziale, riportando le cose al loro status originale: la realtà alle sue normali sembianze e i giocattoli alle loro proprietà fisiche di oggetti muti ed inanimati.