Claudio
SPOLETINI

Fabbricato in Italia – Luca Beatrice

Il valore sociologico della pittura

Claudio Spoletini è uno dei pochi artisti italiani a credere fermamente nel valore sociologico dell’opera e per tale ragione il suo lavoro, soprattutto quello pittorico, si arricchisce di considerazioni che travalicano la mera sfera iconografica. In particolare questo nuovo ciclo di dipinti dal titolo Fabbricato in Italia –trascrizione autarchica del ben più globale Made in Italy - chiama in causa una serie di questioni culturali che vanno di pari passo con la storia del nostro Paese.

Figlio del secondo dopoguerra, Spoletini ha assistito in prima persona a uno dei fenomeni più rilevanti del modernismo: la progressiva trasformazione dell’Italia da comunità agricola a realtà industriale, con la conseguente migrazione interna verso i luoghi dove la fabbrica funzionava da polo d’attrazione. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 l’Italia diviene in poco tempo un leader nella produzione di oggetti e infrastrutture da leggersi come specchio del nuovo corso: automobili e autostrade, piccoli elettrodomestici e televisori -la mitica Lettera 32, macchina da scrivere portatile Olivetti- e una gran quantità di materiali plastici. In genere però le industrie italiane dell’epoca erano ancora legate a una visione del lavoro di stampo fordista, incentrata sui rapporti piramidali tra la fabbrica e i lavoratori, la proprietà e la città, che finiva per condizionare modi e tempi di vita di un’intera comunità. A Torino, per esempio, finché la crisi della Fiat non è parsa nella sua piena evidenza, i flussi di persone e automobili sembravano regolati dall’entrata e dall’uscita dal posto di lavoro, offrendo la sensazione di trovarsi, nel tempo che restava, in una sorta di città dormitorio. Così come risultava palese il modello paternalistico-aziendale: a Natale, ad esempio, era consuetudine che la Fiat distribuisse pacchi dono a dipendenti e operai, e anche la gestione del tempo libero era affidata all’organizzazione aziendale –le colonie estive per i bambini, i viaggi a prezzi promozionali, i centri per gli anziani. Non essendo alcun componente della mia famiglia lavoratore in Fiat, fatto più unico che raro nella Torino degli anni ‘60, non ho avuto modo di usufruire di tali agevolazioni (per esempio i dirigenti di rango potevano cambiare l’auto ogni sei mesi e i semplici quadri potevano comunque ottenere prezzi di favore attraverso il sistema della rateizzazione “a vita”) e neppure dei premi aziendali che i miei compagni di scuola invece sfoggiavano con orgoglio. A cavallo tra l’autunno caldo del 1967, un anticipo del ’68, e la prima grande crisi economica del dopoguerra (il 1972 e il 1973 furono gli anni della cosiddetta austerity a causa del vertiginoso aumento del prezzo del petrolio), Torino era ancora la capitale dell’auto, sede di un prestigioso salone che, da ragazzini, aspettavamo con ansia ogni anno. Eppure, nonostante il fascino delle sportive 1300 coupé, dell’ammiraglia 130, delle storiche utilitarie, tra i miei ricordi infantili la Fiat non ha un significato particolare . L’unica volta che ho varcato il celeberrimo “Cancello 5” di Mirafiori è stato appena pochi mesi fa, ora che lo stabilimento principe di casa Agnelli si pone come un elegante cimelio della modernità, al pari del Lingotto e del capolavoro architettonico di Matté Trucco, o poco più.

Su questo passaggio tra l’estetica dell’italico modern style e il suo valore etico lavora appunto Claudio Spoletini, i cui nuovi quadri, che traggono spunto da altrettante immagini fotografiche in bianco e nero, riflettono sulla storia industriale nel nostro Paese: alcune di queste sono famose e facilmente riconoscibili –ad esempio il Lingotto e Mirafiori- altre invece più generiche ma comunque significative di un gusto architettonico-stilistico della fabbrica che, direttamente o indirettamente, ha ispirato la pittura di de Chirico, Sironi e Carrà. In questo archivio della memoria compaiono anche frames di un altro film: sono paesaggi del nord Europa dove l’industria è al centro di una piccola comunità geometrica e ordinata, a costituire un nucleo autosufficiente (le abitazioni, la chiesa, la scuola, le botteghe, gli spazi per le attività ricreative ecc…) importato dal modello britannico del paternalismo e del socialismo umanitario, che in Italia ebbe come significativo esempio il Villaggio Leumann sorto alle porte di Torino tra fine ‘800 e inizio ‘900 attorno all’omonimo cotonificio fondato nel 1875, ideale utopistico di “azienda buona” e destinato proprio per tale anomalia al fallimento. Spoletini ricerca questa iconografia della modernità sulle riviste d’architettura, negli archivi, tra i documenti fotografici e spulciando tra i banchi dei mercatini, con la medesima passione che lo investe nell’altra sua ossessione, il giocattolo di latta, di cui è prima di tutto collezionista. Le immagini che fanno da sfondo paesaggistico alle sue opere, volutamente dipinte con stile semplice, da almanacco popolare –si dovrebbe qui aprire una parentesi sull’influenza nella pittura contemporanea dello stile illustrativo di Grand Hotel o della Domenica del Corriere palestra di maestri del genere come Walter Molino- manifestano in fondo la stessa intenzione: inserire all’interno di una Storia collettiva una serie di microstorie private e locali che andranno a costituire una sorta di mappatura del territorio. Quella di Spoletini dunque non è affatto pittura di citazione né di suggestioni immediate, ma piuttosto il pretesto per un’indagine socioculturale che pur utilizzando strumenti differenti segue le stesse modalità della fotografia di reportage o, talora, del concettuale. Della foto resta la base di partenza che l’artista romano sottopone a un viraggio monocromo (celeste, grigio, ocra o verde foglia) a sottolineare il rapporto tra immagine e memoria. Non è dunque pittura che tenta di mimetizzarsi con la fotografia ma piuttosto uno stile atto a evidenziare la sospensione e il distacco temporale. “Indagine antropologica” mi sembra la definizione più corretta sulla pittura di Spoletini; per questa ragione risulta altrettanto calzante il termine “concettuale” che predilige la modalità speculativa e processuale piuttosto invece del semplice godimento estetico sul prodotto finito. Ovvero, l’interesse è puntato sul come e sul perché si costruisce un’opera, che opta per un atteggiamento investigativo, e non semplicemente sull’oggetto quadro, che sceglie invece un atteggiamento contemplativo.

Nei “quadri mappa” di Claudio Spoletini ricorre costante l’inserimento di un elemento ulteriore, l’unico peraltro a cui è destinata la pittura per eccellenza, ovvero il colore: i giocattoli di latta che oltre a rappresentare la passione maniacale di Spoletini collezionista, sono il leit motiv (quasi una firma in calce) nella quasi totalità delle sue opere, compreso il ciclo fotografico Photo Play in cui manipolava le proporzioni reali tra l’oggetto (il giocattolo) e lo sfondo (il paesaggio), in maniera non poi così dissimile da Loris Cecchini e mantenendo una sorta di “rozzezza artigianale” da collegare al cinema popolare fantastico.

Ma queste considerazioni sfiorano appena la sfera iconografica e fenomenologica che, come sempre in Spoletini, funziona da elemento di fondo e quindi secondario. Il gioco in latta è presente in quanto permette un ulteriore scarto della memoria. Essendosi trasformato da cosa da usare (persino da rompere e da gettare, come ci ricorda la celeberrima favola Il soldatino di piombo di H.C. Andersen) in feticcio da collezionare e conservare con cura, ciò significa che un oggetto il cui ciclo vitale è terminato può entrare in una sfera d’affezione differente e con un significato ancora diverso. Ma è tutto quello che vediamo nei quadri di Spoletini a non esistere più: non solo non si producono più giocattoli di latta (pericolosi, pesanti, ingombranti, costosi), ma anche la quasi totalità delle industrie raffigurate hanno perso la loro funzione originaria: alcune si sono riconvertite, magari cedute ad una multinazionale, altre sono rimaste come cimeli abbandonati di archeologia industriale, testimoni anch’esse della fine di un’epoca moderna che allora le vide protagoniste. Memoria per memoria, c’è un dipinto di Spoletini che mi ha colpito particolarmente, lo ammetto, sulla soglia della commozione. Il “ritratto” di una fabbrica di campagna, dallo stile rigoroso e metafisico, con di fronte parcheggiate due automobiline rosse. Ecco, questo quadro non può non ricordarmi l’infanzia della mia vita, quando il marito di mia nonna, un industriale biellese dal roboante nome Guglielmo Achille Gallo, ultimo discendente di una famiglia di lanieri, dovette assistere al passaggio (così drammatico da causargli la malattia che poco a poco lo spense) dalla ricchezza degli anni del boom economico alla successiva crisi economica e al mancato adeguamento di una struttura chiusa, familiare e paternalistica, di fronte alla prima ondata globale e alla concorrenza del mercato estero.

Nonostante sempre più spesso ci si trovi a commentare dei fallimenti, le nostre generazioni (quella di Claudio Spoletini e la mia) sono cresciute con il miraggio della grande industria e del posto fisso. Lavorare in fabbrica, in ufficio, in banca, secondo i nostri genitori era decisamente preferibile che vivere a stento di precariato intellettuale, e tanto meno fare l’artista, che razza di stranezza! Ma è proprio questo mondo fondato su regole morali solide, una su tutte il sacro rispetto del lavoro con cui apre la nostra Costituzione, ad avere concluso il suo ciclo vitale, come l’archeologia industriale e i giocattoli di latta finemente “archiviati” da Spoletini. Già nel 1968 Guy Debord preconizzò che la fine del XX secolo avrebbe conciso con la definitiva sostituzione dell’industria pesante di matrice ottocentesca a favore dell’industria dello spettacolo, leggera e multiforme, dinamica e transnazionale. Come varie volte è accaduto il pensatore francese ha avuto ragione e forse si può leggere proprio in chiave debordiana il fatto che nessun componente della famiglia Agnelli, la forza industriale italiana moderna per eccellenza, fosse stato attratto più di tanto dalla politica, mentre l’elezione di Silvio Berlusconi a primo ministro finisce per apparire come lo specchio dell’irreversibile smottamento della vecchia concezione novecentesca a cui si è sovrapposta una teoria dove la spettacolarità prende il posto della sostanza, e l’illusionismo del palcoscenico subentra all’apparato burocratico e verticistico, pur tra infinite contraddizioni.

In conclusione, i quadri di Spoletini non danno giudizi né letture univoche ma si pongono come un’opera aperta capace di riflettere, attraverso il passato, sul presente e forse anche sul futuro.