Claudio
SPOLETINI

Che ci faccio qui? – Bianca Pedace

Che ci faccio qui?

Nato come fotografo negli anni Ottanta, sotto l’egida di Luigi Ghirri e Franco Fontana, Claudio Spoletini ha poi affiancato, in una feconda alternanza mediale, la pittura alla fotografia. Il ciclo realizzato, con intenzioni site specific, per la VII Edizione di  FotoGrafia- Festival Internazionale di Roma,  dedicata al tema Vedere la normalità,  apre una nuova fase del suo lavoro, sollevandone già nel titolo, Che ci faccio qui?, le caratteristiche salienti. Il contrasto ironico tra l’antica pesa degli animali mandati al macello, nell’Ex-mattatoio -ora Città dell’Altra Economia-, e per di più nel contesto dell’antico Campo Boario, dunque in un sito di denso rimando alla civilizzazione forzata e violenta dell’allevamento e dei recinti, e l’evidente e liberatorio nomadismo delle fotografie, non potrebbe essere più radicale.

E’ il viaggio, infatti, la chiave di volta delle otto opere esposte: immagini urbane prevalentemente all’aperto, reperite nel corso di peregrinazioni in Europa e nel mondo lungo gli anni Novanta, elaborate ed edite in occasione della mostra. People on the move, dunque, nel duplice senso della mobilità del fotografo e dei soggetti fotografati: l’orizzonte permanente della mobilità planetaria, come la rapida mutevolezza dei mobili flussi metropolitani, è – sembra asserire Spoletini – la nostra normalità, mentre d’altro canto solo nella “patria elettiva” e temporanea del viaggiante l’occhio, libero da abitudini percettive e mentali, può “vedere la normalità”.  E’ il contesto nomadico (per antropologica definizione eccezionale, sebbene sempre più frequente) del viaggio a esplicitare paradossalmente una quotidianità altrimenti sottaciuta.

Nel breve apologo scritto dall’autore per questa serie, la citazione parafrasata di Mallarmé – tutto il mondo è fatto per finire in una fotografia -  autorizza un prelievo totale e antigerarchico, alla cui legittimità consegue il reperimento talvolta casuale dell’immagine. Del resto il poeta francese, che scrive agli albori della modernità, e in una fase precoce della storia della fotografia, scopriva allora la nuova dimensione umana del vivere associati nelle metropoli (e a tutto ciò che caratterizza la città riferiamo quasi automaticamente il concetto di quotidianità), nella quale acquisiva nuova importanza la parola folla, mentre un processo non troppo diverso era operato in pittura (insieme a molto altro) dagli stessi Impressionisti. Dalla presenza contemporanea e aleatoria di molte persone negli stessi luoghi, intente a seguire i propri percorsi, ciascuno dei quali per l’altro imperscrutabile, nasce una combinatoria di possibili incroci, ognuno di per sé improbabile, uno solo verificato. Ne deriva una mistica del caso, ben esemplificata dalla fotografia in cui una tuba si colloca sopra la testa di un passante, sovrastata a sua volta dalla scritta Holders, ed estesa su scala planetaria, in tempi da sei gradi di separazione, dalla possibilità tecnologica dei viaggi intorno al globo e dalla diffusione di massa del turismo intercontinentale, che, allargando enormemente il novero delle possibilità,  rende in definitiva più eclatante un incontro fortuito. Il senso curioso dell’esplorazione, vitalista ma disilluso, conoscerà dunque un esito scettico sulla possibilità di dominare la vita e la sua quotidianità, nelle maglie della quale, tuttavia, la fotografia taglia un frammento di reale, privilegiandolo.

A questo abbandonarsi gioioso al flusso d’eventi corrisponde una disposizione tutta nuova a salpare dalla sofisticata semplicità della fotografia di set della più recente produzione di Spoletini, in favore di immagini non preordinate e di reperimento talvolta casuale, in cui il punto di vista ribassato e l’inconsapevolezza dei soggetti, che pure citano la serie classica dei Subway Portraits di Walker Evans (1938-41), rimandano ad una vocazione immersiva nell’acquatico mondo contemporaneo. Deposte le chiavi di lettura, i suggerimenti contraddittori creano un senso di rinnovata suspence. E’ il caso soprattutto dei due giovani di spalle davanti ad un edificio, sotto un cielo plumbeo. L’uomo a destra in enigmatico profil perdu sembra sorridere ma l’atmosfera generale allude a una segretezza rubata: il fotografo scatta acquattato alle spalle, tra lo sguardo demiurgico-registico, il paparazzo e la spy-story (a quest’ultima si rifanno molte esperienze anche italiane degli ultimi anni). Sebbene il quadro acquisito della storia della fotografia sia ancora ben presente alla coscienza dell’autore, in particolare con sottilissimi richiami all’eleganza incisiva del già citato Evans, apprezzabile anche nel discreto rimando alla cartellonistica (si veda l’equilibrio compositivo geometrico dell’uomo che legge al di sotto di una gigantesca Coca-Cola), il senso generale elude qualsiasi tentazione da reportage, giocando piuttosto sul limine tra una riflessione sulla fotografia come medium in grado di captare i flussi di energie al loro punto di collisione e moltiplicazione e un ritorno, mediatissimo, alla rivelazione dell’inatteso secondo la filiera metafisico-surrealista ampiamente frequentata dal nostro- basti pensare ai lavori sui giocattoli di cui Gabriele Perretta ha acutamente messo in luce la natura “simulacrale”[1], mentre un’interpretazione esplicitamente neosurrealista veniva da me proposta in Stelle![2]-. Estrapolato dalla normalità, dalla sequenza di eventi cui è concatenato, il frammento di mondo finito in una fotografia diventa interrogazione pungente.

Così come nell’esempio classico di Krauss (che seguo, problematicamente) sugli Equivalenti di Stieglitz la fotografia delle nuvole diventava, nel taglio autoriale, vertiginosa, qui il taglio congela ed immobilizza il panta rei quotidiano, per un verso facendo emergere interrogativi di senso ed etici – la necessità di una cartografia e di un’etica nomade nella più recente riflessione di Braidotti – per l’altro presagendo un esito brysoniano antindividualista e nichilista di dissoluzione dell’ego nel mondo – nato dal problema del “vedere”-. Non manca un tessuto di suggestione narrativa: quale retroscena porta un uomo maturo all’incrocio davanti alla Yorkshire Bank? O, con maggiori sfumature esistenziali: perché la composizione complessa e gli splendidi colori analogici non sedano l’inquietudine e l’impellente desiderio di forzare l’anello che non tiene, di fronte alla donna in rosso che mulina le braccia su un prato verde  mentre  tre ombre scurissime si allungano?  Ma laddove il fattore Perturbante/Sovversione non predomina su quello, modale nel ciclo, di Luogo/Presenza (secondo gli strumenti di lettura del fotografico approntati qualche anno fa, non a caso in area romana, da Augusto Pieroni), la presa diretta e un liberatorio riprendere in esterni esaltano il gioco del multiforme e dell’imprevedibile tenendo a bada senza riuscirvi del tutto le istanze estetiche di una lontana ma non dimenticata immagine italiana.

In questo nuovo outdoors c’è anche però metaforicamente un uscir fuori dalla prassi  più collaudata dell’affascinante interscambio di soggetti e iconologie tra pittura e fotografia che aveva fin qui caratterizzato gli ultimi anni, mentre dai colori densi e atmosferici del bambino tra gli ombrelloni o dallo sguardo obliquo sull’uomo che fuma si dipana un senso combinatorio del mobile del composito dell’imponderabile come essenza della contemporaneità che mi pare abbia pochi raffronti in area italiana apparentandosi invece a proposizioni internazionali tra le quali il confronto più cogente si dovrà istituire con Beat Streuli, in una linea di osservazione umana in contesti associati che va (molto largamente ) da Andreas Gursky a Olivo Barbieri, riuniti nel 2006 in una bella mostra alla Tate Modern. A Streuli in particolare si potrebbe avvicinare per l’attitudine a ritrarre persone in movimento nelle metropoli del mondo, vista nella serie Los Angeles o nella recentissima Bruxelles esposta lo scorso anno allo Stedelijk Museum di Amsterdam, tuttavia differendone per il riporto mai tautologico della microsociologia urbana, colta da Spoletini piuttosto nella sua stratificata complessità, in un punto di vista letteralmente obliquo, ribassato, ellittico, che trova spiegazione nell’uso frequente dello scatto senza inquadratura, nel random della macchina tenuta a mano con nonchalance quasi a voler emendare l’atto del fotografare da qualsiasi allusione d’aggressività o dominio, spesso implicite nell’inforcare la macchina e inquadrare, e divergente quindi dalla centralità diretta del fotografo svizzero. Un’operazione sostanzialmente lontana anche da proposte pittorialiste della fotografia italiana, in cui nondimeno si estrinseca la fascinazione per la pittura americana  e segnatamente newyorkese di novissima generazione, palese nella fotografia che ritrae un gruppo di biondi ragazzi al sole, in piena luce su uno sfondo in ombra. Di lato, tagliato dall’inquadratura, un pupazzo pubblicitario involontariamente li indica, contrappuntando con un primissimo piano in penombra l’indagine luministica pittorialista del secondo piano.

Nel complesso mi pare dunque che allo spettro di una dissoluzione nichilista dell’identità individuale, che aleggia effettivamente, Spoletini contrapponga, nell’abbagliante luce naturale, la forza dell’immagine, la capacità della fotografia di prendere, nel flusso continuo, l’hot spot, il punto esplosivo di liberazione delle energie.


[1] Gabriele Perretta “Quando le illusioni diventano set di effigi globali”, presentazione della mostra  Il tempo delle illusioni, 12-25 maggio 2007, Archivio Menna –Binga, Roma, nell’ambito della VI Edizione di FotoGrafia- Festival Internazionale di Roma , Roma 2007.

[2] Bianca Pedace Claudio Spoletini in Stelle!, catalogo della mostra itinerante a cura di Edoardo Di Mauro e Bianca Pedace, 9-23 giugno 2007, Archivio Menna-Binga, Roma; 29 marzo-29 aprile 2008, Area Museale di Cà La Ghironda, Zola Predosa, Bologna; giugno-settembre 2008, Fusion Art Gallery, Torino.