Claudio
SPOLETINI

Photoplay – Raffaele Gavarro

Non solo realtà

Qualcosa di nuovo sta accadendo nella fotografia. Qualcosa che assomiglia a quell’affrancamento da quella fedeltà al reale, che è da sempre la sua caratteristica più evidente. Tra le altre, la principale causa di tale passaggio è indubbiamente da rintracciare nell’allargamento e nella semplificazione delle possibilità manipolatorie offerte dalle nuove tecnologie digitali, che ha come liberato potenzialità sperimentali e autonomia espressiva del mezzo fotografico. Ma il dato interessante è che gli effetti delle innovazioni tecnologiche hanno cominciato ad agire sulla sfera immaginativa, e anche quando l’elettronica non opera direttamente, ad essa ci si trova a fare riferimento nella costruzione della rappresentazione.

Queste fotografie di Claudio Spoletini sembrerebbero essere montaggi digitali di immagini diverse, un tipico lavoro di Photoshop, e invece sono frutto di veri e propri piccoli set, di luci naturali attese con pazienza, e del lavoro di un opportuno obiettivo grandangolare. Così vi ho svelato da subito i segreti tecnici che stanno dietro queste immagini vagamente surreali, correndo il rischio di soddisfare troppo rapidamente la vostra curiosità.

Ma è chiaro che il modo come sono realizzate le immagini risulta alla fine ben poco determinante, quando non lo è invece l’esplicita induzione alla perdita della capacità di distinguere tra il vero e il falso. Del resto non è questo che ci capita tutti i giorni? Osservando il mondo attraverso le immagini manipolate e trasmesse con quel ritardo infinitesimale che anche la diretta ha, e pur essendone consapevoli, reagiamo a quello che vediamo assorbendo tutte le informazioni, valutando la molteplicità degli innesti come pertinenti non tanto alla realtà, quanto alla sua immagine, che è diventata un piano parallelo altrettanto plausibile. Pur essendo coscienti che tutto quello che vediamo non corrisponde esattamente alla realtà, ci è infatti sufficiente che il trasmesso sia credibile come immagine per dotarlo di una dimensione autonoma perfettamente coerente.

Con un’ironia delicata, all’apparenza quasi un “divertissement”, le Photoplay di Spoletini insistono proprio sul piano di tale reattività. Gli elementi che vengono associati appartengono entrambi alla realtà, ma sono collocabili ai due estremi. Il paesaggio, la città, lo spazio reale, da una parte, e dall’altra i giocattoli, una parodia di quella stessa realtà in cui vengono reinseriti con una quasi perfetta credibilità. Dico quasi perfetta, perché alla ricercata proporzionalità che rende i giocattoli armonici con lo spazio, risponde una chiara riconoscibilità della loro natura di balocchi, che svela l’essenza effettiva di ciò che vediamo. Naturalmente anche la scelta di usare vecchi giocattoli, molto meno mimetici di quelli nuovi, aumenta notevolmente la facilità di individuazione. L’immagine è verosimile, ma non la realtà che le è sottesa.

La sottolineatura di tale gap diventa un segnale mentale da portarsi dietro, da applicare alle immagini che ci passano davanti agli occhi quotidianamente, in cui la discriminazione non è così macroscopica , ma non per questo meno paradossale. Ma oltre queste considerazioni, un aspetto sul quale mi sono trovato a riflettere, guardando Photoplay, e che non avrete mancato di notare, riguarda i paesaggi, gli scorci urbani, gli spazi che fanno da fondo scena ai piccoli oggetti. Sempre assolutamente vuoti, senza alcuna presenza umana, perfettamente immobilizzati in una dimensione temporale indefinibile, si impongono più come rappresentazione tipica, piuttosto che come documentazione. Riscontrerete infatti facilmente richiami alla paesaggistica classica e tardo romantica, e più nettamente alla pittura metafisica, come a certe periferie sironiane, o ancora echi degli spazi americani di Edward Hopper. In questo caso, ovviamente, non c’entra affatto la parodia, ancorché delicata.

L’impostazione della rappresentazione segue infatti volutamente regole compositive di natura pittorica, cercando in tale modo di dare un peso specifico all’immagine che la sottragga al flusso quotidiano. Ma un simile atteggiamento è più che altro dettato da una tipica, per i tempi attuali, propensione a far interagire in un unico contesto aspetti provenienti da ambiti diversi, in un desiderio di simultaneità che non tiene conto delle differenze grammaticali e sintattiche dei diversi linguaggi, ma che punta solo al raggiungimento dello scopo individuato. E’ un modo di procedere che sta connotando non solo le arti visive, ma anche letteratura e musica, che perduta la rigidità della citazione e attraverso un’istintività predatoria, sta innescando nuove energie e comportando modificazioni espressive.

Spoletini fotografa dunque uno spazio reale reimpostato attraverso il ricordo di un’altra immagine, che solo così è in grado di accogliere quel giocattolo che ne altera definitivamente la natura realistica.

Fra tutte le Photoplay ce n’è una in particolare, mi riferisco a quella con il palazzo sulle rive di un imprecisato laghetto del nord, che espone gli elementi singoli della rappresentazione senza quella continuità illusionistica delle altre. Lo stampino a forma di pesce che galleggia sulle acque, il paesaggio sullo sfondo ed in mezzo l’acqua, che riflettendo allarga ancora di più lo spazio tra i singoli elementi. Quest’immagine è una specie di vademecum alla lettura delle altre, ma anche un’implicita dichiarazione di insoddisfazione verso la realtà così com’è, che la fotografia amplifica contro ogni previsione.

(aprile 1998)
Raffaele Gavarro