Claudio
SPOLETINI

Finis Terrae – Gianluca Marziani

METROPOLI.X

Architettura Personale

Mi occupo da tempo della combinazione tra linguaggi visivi. Sull’argomento ho anche scritto un libro, “Melting Pop”, che considero lo specchio sintetico di ossessioni personali ma condivisibili, sorta di autobiografia attraverso oggetti e icone contemporanee. Una tela di ragno per contenere nel concetto elastico questa specifica prospettiva del mondo. Al momento della sua redazione, però, evitai il capitolo sui rapporti tra Arte e Architettura. Mi sembrava prematuro un flash embrionale sulla più difficile tra le combinazioni linguistiche. Preferii l’attesa in quanto gli architetti alimentano percorsi che intendevo approfondire. L’unica certezza era (ed è) che tale connubio si perfeziona attraverso gli artisti visivi. E molti architetti (ad esclusione di chi affronta il mestiere da artista: Frank Gehry valga come esempio massimo) mostrano una furba vaghezza in merito. Solo nelle città olandesi, al contrario, si sente un sistematico ricorso alla sperimentazione combinata: MVRDV, MonoLab e West 8 bastino per tre giusti richiami. E poi citerei il caso di Herzog & de Meuron che hanno coinvolto Thomas Ruff per “rivestire” l’esterno della fabbrica Ricola e la berlinese Eberswalde Library. O ancora lo scultore Anthony Caro che ha collaborato con Norman Foster e Ove Arup per il ponte londinese davanti alla Tate Modern. Un esempio, quest’ultimo, di particolare valore: poiché l’intervento scultoreo avvenne nella formulazione progettuale, a conferma che un artista distilla preziosità estetiche con attitudini funzionali e non solo decorative.

L’Architettura nasce dal pensiero, da un segno sul foglio, dallo sguardo su oggetti domestici, dai più prosaici attimi del quotidiano. Qualsiasi cosa può ispirare la creazione di uno spazio. Nel percorso formulativo l’architetto dovrà poi ampliare l’idea, portarla nella fisica e nell’ingegneria, confrontarla con l’economia e la politica. Finché, una volta pronto il meccanismo tra pensiero e realtà, il dono della sintesi si trasmetterà nell’armonia della nascita.

Anche l’Arte Visiva scaturisce dal pensiero, da sguardi divaganti tra l’esterno e i territori interiori. L’artista usa la sintesi come principio fondativo della sua operazione. Poi, appena terminata l’opera, la sposterà nel mondo ma senza intaccarne la conformazione d’origine. Vedremo l’oggetto creativo in uno scenario per la fruizione, circondato da architetture più o meno adeguate. Il corso di ogni immagine diverrà parte di nuovi contesti spaziali.

Architettura e Arte Visiva sono modalità complementari con percorsi diversi ed esiti simili. Le dividono macro e micro nella presenza fisica, collettività e individualismo nella realizzazione, uso aperto e limitato nella fruizione.

Una volta combinate, però, offrono risultati intensi. Due forme di sintesi in cui il pensiero deve sentire la realtà, filtrarla, ridandone poi un aspetto nuovo, innovativo, utile.

Architettura Pittorica

Poca è la pittura odierna che affronta i temi architettonici in modo costruttivo. Spesso manca lo spunto che unisce estetica e funzione. Vince, invece, la narrazione didascalica di esterni reali o realistici, oppure l’invenzione fantastica che edifica l’impossibile. Ma l’arte vuole anche il punto mediano, quello dove idea e concretezza si compattano attraverso ricerca formale e contenuti. Qui l’artista indica direzioni insospettabili, accende la fiamma di un dubbio. Una strada per “corrosioni” e “corruzioni” che contamineranno chi conserva per non cambiare l’ovvio. Il “virus dell’ulteriore” appartiene alle urgenze dell’artista e dilaga dove trova canali recettivi. In Italia mi sovviene la ricerca di Andrea Chiesi, Luca Pancrazzi o Jonathan Guaitamacchi. Che guardano al puro esistente ma sotto prospettive devianti, spesso nascoste, ulteriori per l’occhio disabituato. E che scoprono l’evoluzione dentro reperti industriali, negli spazi inurbani, nel ritmo orizzontale o aereo della distensione metropolitana. Altri ancora, e penso a Giacomo Costa, Martino Coppes o Claudio Spoletini, partono dal vero per inventare un paesaggio che non c’è eppure potrebbe esserci. Il loro sguardo sembra in aperta filiazione con la visionarietà futurista di Antonio Sant’Elia e Paul Citroën. Costa lo fa attraverso l’immaginario digitale che diventa iconografia sintetica. Coppes costruendo modellini che poi fotografa in una straniante ambiguità tra falso e vero. Spoletini, invece, sceglie la pittura e un parallelo progetto fotografico. Sperimentando, con minuzia e abilità tecnica, la sua visione contaminata tra idea e concretezza fattibile.

Architettura Specifica: Claudio Spoletini

1) Spoletini ha capito, innanzitutto, che bisogna darsi una delineata riconoscibilità. Non basta seguire la fantasia visionaria e trasferirla su tela. Ci vuole una valutazione sistematica dei riferimenti, un collante di raccordo tra le parti, uno stile adeguato al progetto mentale. Tutto ciò, se si mantiene un calibrato bilanciamento, forma il “timbro iconografico”. Delineando un’autonomia linguistica che non chiede sottotesti e didascalie. Il quadro parlerà la propria lingua e gli altri ne comprenderanno parole, frasi, intonazione e volumi. Una visione reattiva del paesaggio, d’altronde, deve costruirsi con un montaggio interno dove nulla sia casuale. Servono regole non scritte affinché l’opera non viva di pura fantasia ma sia un misto tra possibile e probabile. Solo i codici linguistici strutturano una geografia architettonica che dà l’identità al progetto e ai suoi contenuti.

2) Un altro punto sottolinea la tensione storica che sottende il passo di Spoletini. Capisci come l’utopia ideativa si confronti con la cultura europea, coi valori costitutivi di un umanesimo fruttuoso. Vedi il futuro ma dentro gli incastri di una memoria solida e capillare. La distribuzione citazionista spazia così con chiara riconoscibilità e altrettanto ovvia stranezza: dal costruttivismo russo al razionalismo italiano, dagli stilemi arabi al postmoderno di Aldo Rossi, dalle pesantezze di Leon Krier ai metropolismi in cemento armato di New York o alla metafisica silente del quartiere romano Eur. Senti il peso stratificato di una città verticale, un mastodontico serbatoio di solidità e tecnologia nascosta. Il luogo fisico diviene la città invisibile della mescolanza concreta. Eccola, la storia del costruire che si dipana nel magma irrequieto, eppure sotto controllo, di una sintesi storica. Spoletini contamina valori, riferimenti e culture in modo semplificato ma non certo semplicistico. Il suo citazionismo architettonico appare ricco di contraddizioni, di autori dalle idee anche discutibili, di rimandi postmoderni al passato lontano. Ma sta proprio qui l’intuizione: nel capire che la sua è, idealmente, la città dei nuovi regni africani, delle ricostruzioni postbelliche in medioriente, dei neoluoghi tra economia e utopia, degli architetti che assecondano il macropotere. Tra quadri e geopolitica nasce la metropoli che mescola economia, religione, progresso, alto tasso abitativo. Andando nel concreto delle tele, ecco che i trasporti, pubblici e privati, sfruttano il cielo anziché la sola terraferma; le strade si estendono sopra l’acqua e collegano intere aree di grattacieli ad altre zone edificate; l’ora viene scandita da molteplici orologi, sia analogici che digitali; forme geometriche gigantesche si sviluppano, in successione lungo il paesaggio, come magneti per la trasmissione di energia. I particolari ridanno questo strano contesto che non conosciamo ma riconosciamo. Spiazzante e imperioso, il mondo dipinto ci racconta il futuro con gli strumenti vivi del nostro presente.

3) Tali luoghi sono centri nevralgici di utopia possibile e non di fantascienza improbabile. L’input di Spoletini sposta la prospettiva mentale dall’assurdo al veritiero. Crea visioni sul futuro in cui concretezza e fantasia convivono con precisa fusione. Pensiamo ad Arcosanti, città libertaria che Paolo Soleri ha creato in Arizona. O al quartiere di ricchezza e bellezza che James G. Ballard racconta nel romanzo “Super-Cannes”. O ancora alle utopie moderniste di Le Corbusier a Chandigarh e di Oscar Niemeyer a Brasilia. Fino all’architettura collettiva di Celebration in Florida, località “fumettistica” (prodotta dalla Walt Disney) in cui la calma serafica mostra l’artificio mostruoso del controllo sociale. Come tutti i luoghi citati, anche le città di Spoletini hanno qualcosa di magico e inquietante. Capisci che misteri ed eccessi vivono dietro le finestre, nei posti pubblici e privati, dentro i palazzi. Intuisci la distorsione eppure ti sfugge il controllo generale, perdi l’equilibrio etico, cerchi le radici tra la “tua” città e l’immaginazione pragmatica.

4) L’altro dato emergente è la riuscita contaminazione culturale attraverso l’architettura. Gli edifici portano con sé intrecci storici, tendenze sociali, costumi distinti di culture già delineate. Indicano luoghi di elevato rigore che non si deprivano delle varie identità con cui nacquero. La precisione progettuale agglomera tali elementi senza abbassare l’energia olistica dell’edilizia urbana. Questa città dell’utopia assembla religioni diverse, interessi molteplici, percorsi professionali e privati. Le cupole e i motivi decorativi rimandano alle moschee e ai minareti, altre volte immagini luoghi rinnovati per l’aggregazione cattolica. Poi ripensi al delirio lavorativo delle professioni economiche dentro i grattacieli. Ipotizzi condomìni con vedute aeree di ascendenza ballardiana. La vita si calamita lì ma non si vede, pulsa negli interni celati, alimenta la riservatezza e il mistero. La contaminazione, diventata davvero visibile, appartiene alla planimetria dei quartieri ambigui di Spoletini.

5) Mimetizzata ma presente appare anche la visione del futuro. Ora ce la richiama un gigantesco orologio digitale sul tetto del grattacielo. Ora alcuni aerei supersonici che tagliano il cielo azzurro a bassa quota. Ora i binari che abbracciano alcuni edifici e sibilano nelle traiettorie volanti di un trasporto pubblico postautomobilistico. Esemplare diviene il quadro dove un treno verde sbuca da un palazzo e discende su mura sinuose. Qui non ci sono binari e fili ma un mezzo aerodinamico che scivola lungo la pietra esterna delle fasce perimetrali. Ti chiedi quale logica guidi l’ingresso di un veicolo dentro un edificio dai richiami ascetici. Pensi alla sua funzione, al modo di relazionarsi con l’interno del luogo, alla convivenza difficile tra i suoni del motore e il silenzio della possibile preghiera. Ma forse quel veicolo non produce rumore, forse l’edificio non racconta una chiesa bensì un crocevia della vita civile. Il dubbio sugli interni ti assale davanti alle architetture dipinte. Intuisci molto senza capire tutto. Ed è questo che mette peso sulla bilancia concettuale dell’artista: non esiste l’ovvio poiché il mondo sta realmente mutando a ritmo vertiginoso. La grande catena economica governa i valori di ogni Stato, la religione stravolge i destini territoriali, le guerre cambiano le architetture cittadine. Nuovi macrovalori si affacciano alle porte del nostro domani: ecologia, gestione delle risorse naturali, conversioni dei materiali su vasta scala, biologia trasversale, informazione veloce, tecnologia neoumanistica. Saranno questi, ed altri molto simili, i problemi centrali di chi avrà vent’anni tra vent’anni. Conteranno meno la micropolitica dei singoli paesi, le beghe rissose dei parlamentari turbolenti, i fazionismi partitici tra rappresentanti di un popolo annoiato. La televisione stessa sta già invertendo le sue coordinate di riferimento: e diverrà sempre più specialistica, canalizzata per fasce specifiche, integrata alle altre tecnologie videodomestiche. Dentro tali mutazioni sarà il paesaggio urbano un cardine nevralgico per esigenze ormai diversificate. La visione di Spoletini, in fondo, non si allontana dal mondo che ci attende: alla crescita spasmodica di tecnologie microleggere e ultraveloci, fa da contrappunto una memoria civile che erige i suoi molteplici “monumenti” urbani. Il domani, ricordiamolo, parte sempre da un presente normalissimo e silenzioso.

Architettura Aperta

Il progetto di Spoletini attraversa svariate arti visuali. Cattura pensieri dall’architettura, come già detto in precedenza, ma anche dal cinema, dalla scultura, dal design, dalla televisione… e ogni volta filtra stilemi e codici in una miscela che non sottolinea la provenienza degli elementi. Il senso costruttivo della citazione si sviluppa così: combinando formule che perdono l’autonomia delle proprie origini e ipotizzano un nuovo scheletro del domani.

Il cinema, ad esempio, riporta la memoria a “Metropolis” e “Blade Runner”, all’espressionismo tedesco e Leni Riefenstahl, John Carpenter e David Cronenberg, aprendo altre vie a “Tron”, “Black Rain”, “Gattaca”, “Mister Hula Hoop”, “Il Quinto Elemento”, “The Truman Show”, “Cube”, fino al sogno surreale in “Parla con Lei”… vedi atmosfere filmiche nei tagli d’inquadratura, nelle panoramiche aeree, nel sentore implicito di un atteggiamento visivo. Il cinema ingloba lo stile CNN da news satellitari, diventa parte di un’iconografia dipinta che forza le chiavi realistiche e avvicina la fantascienza al nostro presente.

Il design, poi, riguarda dettagli su edifici, richiami simbolici delle forme, nuovi mezzi di locomozione che fendono l’aria con forme avanzate. Si ritrovano rimandi a forme domestiche, utensili, accessori da bagno e cucina. Un accento sul design che riguarda anche il treno con lo stesso colore di una cupola (forse) religiosa. Un dettaglio importante poiché l’assimilazione tra elementi distanti implica concetti basilari della nuova architettura civile. Il design coinvolge qui la scultura sociale, entra nelle forme degli edifici, connota la perimetrazione visiva di un’intera metropoli. Molte città a misura capitalistica, ricordiamolo, cercano i messaggi subliminali attraverso le stesse architetture. Rifletterci, col supporto trasversale della pittura, può educare la civiltà dell’occhio e delle azioni individuali.

Scorriamo i quadri e vediamo grattacieli, edifici imperiosi, rotaie, aerei e altri mezzi volanti, camini che emanano fumi neri, orologi, nuvole, monumenti… ma non scorgiamo mai la presenza umana. Sentiamo che la vita scorre eppure tutto l’organico risulta nascosto. In continua frenesia contemporanea ma al chiuso, dietro le finestre scure, nelle cabine dei treni, degli aerei e delle mongolfiere. La città sembra vivere dentro la delirante geometria dell’iperlavoro. La natura verde è sostituita dai surrogati funzionali che velocizzano lo stile quotidiano a discapito di salute e poesia. Ormai consideri impossibile il relax negli spazi aperti, non ti capaciti che si possa giocare al di fuori dei luoghi senza sole diretto. Immagini palestre, piscine, squash, calcetto, tennis, bowling e altri ambienti sportivi: ma rigorosamente al chiuso, dentro centri polifunzionali che si sostituiscono alle cose odorose. Un mondo diverso, a tratti imbarazzante e immorale, plausibile nella prospettiva aperta di uno sguardo coraggioso. Un posto che uomini e donne hanno edificato e alimentato, prendendo linfa da una memoria storica a cui apparteniamo tutti noi. Che la colpa di ogni possibile delirio non sia anche nella paura di ribellarsi ai luoghi? Al paesaggio, nostro specchio, l’ardua sentenza. Al paesaggio artistico, nostra salvezza interiore, la via dell’interrogativo (per un futuro migliore).